L’estate calda di Macron

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A Lione, a Parigi, Nizza, Nantes o Marsiglia la scena è la stessa: i commercianti proteggono le vetrine con i pannelli truciolari. Alcuni non li hanno mai tolti, soprattutto le banche e tutto quello che rappresenta il Capitale.

Fatto sta che in queste ore centinaia di manifestanti tornano ad affollare le strade e le piazze in tutta la Francia, in una delle tante giornate di mobilitazione chiamate dai sindacati, ormai se ne è perso il conto.

Anche l’informazione ormai sembra stanca pure delle violenze: i casseur, i vandali, quelli degli scontri con la polizia e dei saccheggi, sono sempre serviti a due cose: da una parte ad attirare l’attenzione sulla protesta, dall’altra a distoglierla dalle motivazioni della protesta.

Ora forse non funziona nemmeno più, sembra quasi che la Francia si sia assuefatta: non si vedono più tutti quegli indici puntati dalla maggioranza di governo per chiedere alle opposizioni e ai sindacati di condannare le violenze, non si sentono più denunce di violenza della polizia, le frasi ormai sono quelle espresse per dovere e per routine, e anche l’informazione ci bada molto meno.

I manifestanti in piazza però continuano a esserci, e non si capisce se protestino davvero contro la riforma delle pensioni o perché quella per loro è l’ultima goccia: “ras le bol”, come dicono in Francia, la scodella è piena.

In Parlamento si prepara la grande sfida a colpi di cavilli, con il governo sempre più spinto ad abusare della Costituzione per principio, per arroganza e soprattutto perché non ha la maggioranza. In questo caso più per principio, sembrerebbe: perché la proposta di legge presentata dall’opposizione di sinistra, che si dovrebbe discutere all’Assemblea Nazionale giovedì, due giorni dopo le manifestazioni, non può passare semplicemente perché Macron non ha la maggioranza all’Assemblea Nazionale ma le opposizioni sono in minoranza al Senato. Allora perché ostinarsi a denunciarne la presunta anti-costituzionalità per impedire il dibattito? Alcuni giorni fa Elisabeth Borne, rispondendo in aula ad alcuni deputati d’opposizione, sembrava perdere il controllo dei nervi: “non consentiremo che si possa dibattere una norma palesemente incostituzionale”, ha detto. Frase che ha creato un certo imbarazzo al governo, perché decidere di ciò che è o non è conforme al diritto costituzionale e di ciò che si possa discutere in Parlamento non è, di tutta evidenza, competenza del governo. Ovviamente l’opposizione ha approfittato dello scivolone del Primo Ministro per calcare ulteriormente la mano nella descrizione di un governo despota, lui sì ai limiti della compatibilità costituzionale, dicono.

Scaramucce regolamentari, nei giorni scorsi: il presidente della Commissione parlamentare che doveva valutare l’ammissibilità del disegno di legge presentato dalla sinistra l’ha ammesso, d’altra parte è compagno di partito di Mélenchon. Solo che poi la Commissione ha tagliato l’articolo uno, quello fondamentale, che punta ad abrogare la riforma delle pensioni. Svuotando di fatto la norma in questione. Nonostante questo, i macroniani vorrebbero comunque impedire che anche la parte restante possa essere dibattuta. Probabilmente perché la sinistra ha deciso di presentare un emendamento che reinserisce di fatto l’articolo eliminato in commissione. Dettagli tecnici di una controriforma che non si farà, che ci fanno però capire come l’opposizione giochi tutte le carte per spingere sempre più nell’angolo il governo, e la maggioranza senza maggioranza cerchi di esasperare lo scontro.

Intanto Macron tace, o meglio parla d’altro. Ieri era all’Abbazia di Mont Saint Michel, che celebra il suo millennio. “Simbolo dello spirito francese di resilienza e resistenza”, ha detto. Lui, che nei primi tempi era visto come il peggior globalista, da qualche settimana sposta il discorso, parla di patria e di Nazione, cose che piacciono alla destra. Persino con la destra estrema si è mostrato cauto: ha tarpato le ali all’impulsiva capa del governo, Elisabeth Borne, che aveva definito il Rassemblement National “erede di Pétain”, cioè del regime di Vichy che collaborò con i nazisti. E Macron subito l’ha corretta, pubblicamente: invitandola a “non usare argomentazioni degli anni ’90 che non funzionano più”. L’estrema destra va colpita sottolineando incoerenze e contraddizioni, non con vecchi “argomenti morali”, ha aggiunto.

In tutto questo una cosa sembra chiara: il governo è il primo fusibile, e al presidente un rimpasto ogni tanto non fa nemmeno tanto male. Non ora, magari, non in un momento in cui lo si possa interpretare come una sconfitta. Ma relativamente presto. Poi lui cercherà di completare il proprio mandato, fino al 2027, e probabilmente ci riuscirà. Cercando anche di volare alto, perché non potrà più candidarsi e con ogni probabilità si renderà disponibile per altri ruoli, sulla scena internazionale. Salvo sorprese, come sempre.