Il poker di Trump

Quarta incriminazione per The Donald, che potrebbe però uscirne avvantaggiato

Versione audio dal podcast di Radio Sound 24

Ai tribunali Donald Trump ci è abituato: non tanto quanto lo era Berlusconi, ma è sulla buona strada.

Adesso, con quella annunciata alla vigilia di Ferragosto, siamo a quattro incriminazioni per le vicende politiche culminate con l’assalto al Campidoglio del gennaio 2021.

Come Berlusconi, anche Trump lamenta processi politici e ha in parte ragione, e anche laddove non ne avesse avrebbe comunque buon gioco presso un’opinione pubblica, a suo dire maggioritaria, che lo vuole ricandidato e poi di nuovo presidente. E se i Democratici dovessero ancora insistere su Biden, con i suoi fardelli anagrafici e familiari, Trump avrebbe ottime probabilità di riuscire a tornare alla Casa Bianca.

Dopodiché ci si può chiedere se non sia tutto un bluff, il suo: se non abbia lanciato la sua candidatura per tutelarsi dai processi, o per provarci. Come per Berlusconi, è difficile capire se sia nata prima la gallina o l’uovo. E come per Berlusconi questioni ovvie sulla tempistica non trovano risposte semplici.

Quando Trump dice “perché non mi hanno incriminato due anni fa, allora?”, sottintendendo un tentativo di bloccare la sua corsa alla presidenza, ha magari torto perché quelli sono più o meno i tempi tecnici della giustizia, ma se la procuratrice Fani Willis adesso fa tutto in fretta, con il mandato d’arresto spiccato contestualmente all’incriminazione e un processo che per lei dovrebbe aprirsi entro sei mesi, perché non ha accelerato nei due anni precedenti? A questo la procuratrice di nomina democratica una risposta credibile non riesce a darla, sicché Trump ha buon gioco ad accusarla di aver deliberatamente rallentato la procedura per poi accelerarla al momento giusto per infliggere il massimo danno alla sua campagna elettorale. Che poi: ci arriverà alla candidatura, Donald Trump? In teoria dovrebbe finire in carcere, la procuratrice gli ha dato tempo fino a martedì prossimo per consegnarsi. Dopodiché gli verranno prese le impronte digitali e saranno espletate tutte le procedure riservate a qualsiasi detenuto in attesa di giudizio.

In realtà tutti prevedono un immediato rilascio, anche se i 13 capi d’accusa che lo riguardano sono piuttosto pesanti e fanno riferimento alla legge antimafia. A un primo sguardo mi sembrano accuse pesantissime con però poca sostanza: per esempio una delle prove principali sarebbe la telefonata in cui Trump disse “trovami gli 11.000 voti per farmi vincere”, quando si era già votato e si parlava di qua e di là di falsi elettori. La procuratrice ci vede un’esortazione a falsificare le schede necessarie, ma si può anche leggere in un altro senso: “ricontiamo i voti, dobbiamo controllare tutto fino a quando non ritroviamo i voti che ci sono stati tolti”. Anche gli altri elementi che ho visto mi paiono variamente interpretabili.

Trump, e con lui altre 18 persone tra cui il suo ex avvocato Rudolph Giuliani, è accusato di aver cospirato per sovvertire il risultato delle elezioni del 2020. Il problema è che è accusato in Georgia, e la Georgia ha notevolmente ampliato il campo della norma che era stata varata a livello federale per contrastare le gang del crimine organizzato. Sicché in Georgia si applica praticamente a qualsiasi tipo di crimine in riunione. Ampliato il campo, ma mantenuta la gravità delle sanzioni: sicché Trump rischia fino a 20 anni di carcere. Questa norma, che si chiama RICO, acronimo di Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act, consentì di colpire i boss mafiosi in quanto mandanti dei delitti,che non avevano quindi commesso direttamente. La cosa evidentemente in Georgia vale anche per Trump. The Donald si era già imbattuto in questa legge nel 2013, quando gli fu intentata causa da Art Cohen e altri per una presunta frode. Trump fu poi eletto, e non se ne fece più nulla.

La prima carta che giocheranno ora i suoi avvocati sarà quella dell’incompetenza territoriale del magistrato, in modo da spostare il processo a livello federale, per diversi motivi: la minor estensione federale della norma RICO, che potrebbe portare a un alleggerimento del quadro accusatorio; la possibilità di non incappare ancora in un giudice vicino ai Democratici; e una tempistica più gestibile, dal suo punto di vista.

Se non ci riuscisse e tutto dovesse restare in Georgia, però, Trump potrebbe paradossalmente uscirne rafforzato, politicamente: essere processato, da candidato d’opposizione e per vicende fondamentalmente politiche, da un magistrato fedele al partito al potere può convogliare su di lui il consenso di tutta la parte del paese che non si riconosce nel governo Biden o nel suo partito, e anche di quelli che ne sono rimasti delusi, mettendo in ombra i candidati rivali alle primarie repubblicane e svuotando di contenuti ogni possibile discorso del candidato democratico, perché avrebbe nell’immaginario collettivo il peccato originale di un’ingiusta repressione dell’opposizione, dell’uso politico della magistratura. E se anche per ipotesi Trump finisse davvero in carcere, sarà pure scomodo ma politicamente cambia poco: nessuna legge gli impedisce di far campagna elettorale da una cella, e c’è anche un precedente, anche piuttosto nobile: il detenuto era Eugene Victor Debs, sindacalista e poi anche socialista, ed era in carcere per aver violato un divieto di manifestazione. Era il 1920, un po’ più di cent’anni fa. E se vuoi fare il candidato anti-sistema alle sessantesime elezioni presidenziali degli Stati Uniti anche seguire le orme in carcere del sindacalista di un secolo fa non è poi male. Sicché Trump correrebbe il rischio non solo di essere il sessantesimo presidente degli Stati Uniti, ma anche di essere il primo carcerato della storia ad assurgere alla presidenza. Ho detto sessantesimo: in realtà sarebbe il 47esimo se guardiamo alla persona, ma il sessantesimo se consideriamo il mandato. Perché ci sono stati diversi presidenti che poi son stati rieletti. Joe Biden vorrebbe essere uno di questi, il 25 aprile scorso ha annunciato la propria ricandidatura. Direi che è un problema, per i Dem. Anche perché l’età avanzata è forse il meno grave dei problemi di Biden.