Derive e derivati

Versione audio dal podcast di Radio Sound 24

Quando parlo di Borsa con amici italiani incontro reazioni quasi sempre un po’ impaurite, forse anche deluse: come se la scelta di investire fosse una caduta di stile, se non etica. Non è così all’estero, o almeno in quell’estero che frequento io.

Si dice che il rapporto di diffidenza verso tutto quello che riguarda il denaro abbia origine nell’educazione religiosa che ha influenzato la mentalità del Paese. È vero che l’Italia ha cultura prevalentemente cattolica per alcuni aspetti, al di là del fatto che si professi o meno, ed è vero che la finanza moderna si è maggiormente sviluppata nel mondo protestante, in cui la concorrenza è vista come un bene, volontà di Dio per il miglioramento della società. D’altra parte Adam Smith era un religioso.

Quell’impostazione però porta anche a stabilire limiti morali e regole pragmatiche di funzionamento.

Che d’altra parte esistevano, anche se in modi diversi, pure quando nascevano le prime banche nell’Italia centrale, e il Vaticano e il cattolicesimo esistevano e influivano e plasmavano la società anche allora. Ché poi, con le banche non nasceva certo il denaro come strumento di rappresentazione e di scambio di un bene sottostante, quello esisteva dall’antichità: semmai nasceva lì la lunga storia del denaro che crea se stesso, con tutti i suoi benefici e tutte le sue derive.

Ecco, a proposito di derive: sarà pure vero che c’entra l’educazione, ma secondo me anche l’informazione contribuisce a formare quell’atteggiamento di sospetto nei confronti della finanza. Perché è tendenzialmente una rappresentazione del negativo, con poca analisi. E quando si parla delle derive della finanza si pensa in realtà a certe grandi operazione speculative, ai derivati. Si pensa molto meno alla compravendita di azioni, che è una semplice attività commerciale, nemmeno tanto rischiosa se fatta con prudenza. Ah, è pure meno tassato

“Derivato” è quasi una parolaccia, per molti Italiani: ma è un termine generico, che non definisce nulla di particolare. Il derivato, in pratica, è qualunque contratto che subisca gli effetti di un valore sottostante. Per esempio, ci sono alcune piattaforme che consentono agli investitori di comprare azioni anche per piccolissimi importi, anche quando la singola azione costerebbe molto. Per esempio, un’azione di Meta costa 271 dollari. Se voglio investire 1000 euro e voglio diversificare l’investimento prendendo diverse azioni, una singola azione di Meta varrebbe già un quarto del mio budget, e quindi non riuscirei ad avere quella diversificazione che serve a ridurre il rischio. Sicché, puoi comprare una parte dell’azione. Si chiama investimento frazionario, ed è un derivato. Perché in realtà non compri davvero l’azione, ma compri un titolo che rappresenta quella frazione ed è regolato in modo da subire le stesse fluttuazioni del valore.

Nemmeno te ne accorgi, ma sei già nel mondo dei derivati. Poi ci sono dei contratti di tipo assicurativo, che reagiscono in base all’andamento di un valore, per esempio i famosi CDS che coprono dal rischio di défault creditizio, li fanno le banche per ridurre il rischio di alcuni titoli di Stato molto dinamici; poi ci sono contratti che rappresentano volumi di prodotti, che non acquisti realmente, non hai bisogno di magazzini per metterci le tonnellate di grano che hai acquistato, no, è un derivato. Diciamo che servono un po’ al contrario, questi: a determinare il prezzo della merce reale. Perché il loro andamento dipende direttamente da quello che succede nel mondo: calano le scorte, i prezzi aumentano; finisce la guerra, i prezzi calano. Andamento tipicamente opposto a quello delle azioni. L’azienda X produce grano, e scoppia la guerra e quindi l’export sarà fortemente ridotto. Le azioni di quell’azienda subiranno un brusco calo, perché saranno meno richieste in quanto più rischiose. Se l’azienda fallisce perdi l’investimento.

Questo vale per il produttore. Per il prodotto invece la dinamica è logicamente inversa: c’è meno grano, salgono i prezzi. Finisce la guerra, quindi ce ne sarà di più in vendita, calano i prezzi.

Però ci sono anche i derivati sulle azioni, e qui il discorso si fa interessante: l’azienda X che produce grano ha emesso, diciamo, 1000 azioni, che sono sul mercato. Rappresentano una quota del capitale, praticamente comprando le azioni partecipi alla vita dell’azienda. Puoi comprarle per diversi motivi e per tempi più o meno lunghi, le azioni sono libere sul mercato. Poi quello che guadagni, dedotte le spese, solitamente è tassato intorno al 30%, contributi compresi. Compri le azioni, e a un certo punto le vendi. Finché stai nell’azienda, a volte ricevi un dividendo, se l’azienda va bene. Solitamente è intorno al 2-3% del valore delle azioni, e le tasse le paga direttamente l’azienda che ti dà il dividendo, vengono dedotte all’origine. Ovviamente puoi vendere solo azioni che prima hai comperato. Non puoi vendere quello che non hai, è normale.

Però tu puoi decidere di non comperare le azioni, ma un derivato che le rappresenta ma che ha un effetto leva: investi 1.000 euro, compri contratti che hanno lo stesso valore delle azioni della nostra azienda X e che rispondono direttamente alla variazione del prezzo di quell’azienda. Però gli effetti, al rialzo o al ribasso, sono moltiplicati per due, cinque, dieci. Moltiplichi gli effetti, moltiplichi il rischio. E il guadagno se ti va bene. Hai investito 1.000 euro; ma è come se ne avessi investiti 2.000, 5.000, 10.000. Se l’azione perde l’1% avresti perso 10 euro, ma con il derivato nel perdi 20, 50, 100. E viceversa per il guadagno.

Il derivato sulle azioni spesso taglia il legame con l’azienda, tra l’altro. Non incasserai dividendo, non sarai invitato all’assemblea, perché non hai comperato le azioni reali ma solo un contratto con un operatore finanziario. Come un gettone al casinò: rappresenta un valore e vale solo lì. Guadagni solo dalla variazione del prezzo, e qui viene il bello – si fa per dire -: siccome non comperi azioni reali, ma posizioni, puoi decidere di scommettere al rialzo ma anche al ribasso, sempre con la leva. Quando scommetti al ribasso apri una posizione short, in termini tecnici. E quindi se hai investito 1.000 euro con la leva a 10, posizione short: se le azioni del nostro produttore di grano calano dell’1%, tu guadagni il 10%, cioè 100 euro.

Già qui la cosa si fa un po’ perversa, figuriamoci quando i volumi d’investimento sono massicci, a maggior ragione quando sono tanto massicci da condizionare l’andamento di un prezzo… Direte: ma se non sono azioni reali, quei contratti saranno condizionati dal valore del titolo reale, non può succedere l’inverso. È vero, in teoria il derivato non può mandare in rovina la nostra azienda X, ma la realtà è un po’ diversa.

Qui serve una brevissima spiegazione sulla posizione short: è un po’ come se si vendessero azioni senza averle. Quando inizi a investire, al momento di aprire un conto tioli con la tua banca o una qualsiasi piattaforma di trading, firmi un contratto. Spesso senza leggerlo. Spesso c’è scritto che l’azione, non essendo nominativa, può essere presa in prestito dall’operatore senza chiederti un consenso preventivo né informarti, purché tu abbia disponibilità dello stesso numero di azioni nel momento in cui decidi di farne qualcosa. Compri azioni, le lasci lì pensando che dormano, ma in realtà entrano ed escono continuamente e nemmeno te ne accorgi. Quelle azioni vengono prestate a chi apre una posizione short, e in pratica vengono vendute per poi essere riacquistate quando il prezzo è calato, dopodiché ti vengono restituite. Chi chiude la sua posizione short trattiene la differenza di prezzo. E paga se invece la scommessa gli è andata male e le azioni sono salite.

Immaginate di moltiplicare tutto questo per cifre colossali. Immaginate i volumi finanziari generati da questo tipo di operazioni, con moltiplicatori a 10 e algoritmi che gestiscono in automatico le chiusure delle operazioni per limitare il rischio. Se tanti scommettono al ribasso sull’azienda X mandano un segnale in borsa, e crolla anche il titolo reale. E se la massa che si sposta è davvero grande può generare anche timori sull’indotto, su tutto un settore, ma anche su quello finanziario e pure quello assicurativo, perché alla fine qualcuno le perdite le dovrà pagare.

Il problema di tutto questo è che si possono moltiplicare i derivati, scommettere su posizioni opposte, comprare derivati assicurativi, spingere una situazione negativa per generare ricavi da una perdita. Lì sì, che la finanza diventa una brutta cosa. Lì sì che potete guardare con quella faccia un po’ così l’investitore.