Propaganda, più o meno – la “carne coltivata” e chi c’è dietro
In genere, quando iniziano a dirmi come dovrei definire una cosa vuol dire che qualcuno ha deciso che quella cosa deve essere accettata da tutti. Che poi accada nella realtà è un altro conto, ma diciamo che la pressione sulle definizioni fa parte di una spinta di tipo lobbistico quando non politico-finanziario a favore di realtà più o meno nuove.
Mi pare che sia così anche per la carne creata in laboratorio: fioccano articoli, soprattutto su testate pseudo-ambientaliste ma non solo, in cui si inizia dal dire che non la si dovrebbe chiamare “carne sintetica” ma “carne coltivata”. Poi lo sviluppo è quasi sempre lo stesso, sempre scopiazzato dagli uni e dagli altri ma deve pur avere un’origine.
Si dice che la carne coltivata è buona quanto quella biologica (attenzione a non dire “quella vera”), che le qualità nutrizionali organolettiche eccetera eccetera. Tutto fantastico, e poi l’argomento usato per il popolo ambientalista (quella minima parte che ci casca) è che la carne finta, se si imporrà sul mercato, ridurrà le sofferenze degli animali perché spariranno magicamente gli allevamenti intensivi, insomma non servirà più allevarli, potendoli produrre. Pardon, produrre la carne. Pardon, coltivarla. In laboratorio, s’intende.
E siccome la si coltiva in laboratorio e non nei campi il vantaggio è triplo: basta alla crudeltà nei confronti dell’animale, nessuna occupazione di terreno coltivabile, basta anche con tutti quei peti metaniferi che danneggiano l’ambiente. Per questo ci sono anche aziende che raccolgono il metano nelle realtà agricole, ma è un altro discorso.
La metà dei numerosissimi articoli o presunti tali che ho incrociato fa riferimento a Report e alla puntata in cui Giulia Innocenzi affronta il tema, per così dire, della carne sintetica. Pardon, coltivata. In quella puntata anche lei inizia a dire che si deve dire “coltivata” perché “sintetico” è aggettivo usato da chi avversa quel prodotto salvifico, per farlo apparire più chimico e quindi sospetto agli occhi di quei gonzi di consumatori, sempre abbindolati dalle grandi lobby industriali, in questo caso da Confagricoltura e compagnia.
Che hanno persino convinto il governo italiano, unico al mondo dice Giulia, a vietare la produzione. Probabilmente, argomenta la giornalista, il governo nemmeno sa che è italiana una delle principali aziende che producono le turbine per quella produzione nei laboratori.
Probabilmente, dico io, lei non sa che la legge italiana mica vieta di produrre le turbine, e tantomeno di esportarle. Se poi una fabbrica italiana pretende di vendere anche in Italia un prodotto che in Italia per varie ragioni non ha spazio saranno anche fatti di quell’azienda, nessuno l’ha costretta a mettersi in un settore che sapeva osteggiato, da noi. E pure per buone ragioni, naturalmente.
Saranno pure buone anche quelle di Report, che nella sua puntata sposa le ragioni di chi produce carne sintetica-pardon-coltivata, fino ad andare ad assaggiarla in Indonesia. Sapendo bene che i produttori sono grandi conglomerati industrial-finanziari, principalmente statunitensi.
E mentre provavo a seguire il mega-spot, pardon, la puntata di Report, pensavo: “ma davvero ne dovremmo aver bisogno? Esistono tutte le alternative vegetali, perché dobbiamo andare a coltivare la carne in laboratorio?”
Aggiungo oggi, a mo’ di confessione, la mia ostilità ai grandi allevamenti: andrebbero chiusi, quelli. Inquinano. E difficilmente si può parlare di animali vivi, lì dentro. Dopodiché non sarei contrario a una distribuzione di allevamenti più piccoli sul territorio, con animali che abbiano spazio per razzolare e nutrirsi correttamente. Il che naturalmente si dovrebbe accompagnare a una sana riduzione del consumo, perché ammettiamolo, in media si mangia troppa carne. E l’abbiamo talmente industrializzata che i bambini credono che nasca in vaschetta nel supermercato.
Ma la carne creata in laboratorio da una base cellulare no, per mille motivi: il primo è che si tratta comunque di un artificio industriale, che difficilmente può essere sano nel senso integrato, non solo farmaco-biologico, che intendo io; il secondo è che della scienza mi fido solo quando fa le cose necessarie e in tempi lunghi, e qui non serve a nulla né sono abbastanza lunghi i tempi sperimentali; il terzo è che puzza troppo di artificio comunicativo, e quindi non mi fido per principio. Tra l’altro non ricordo di aver mai visto una puntata di Report così promozionata, prima e dopo.
Ultimo motivo, in realtà il primo: se non vedo l’utilità della cosa – perché, come detto, abbiamo già tutte le alternative vegetali dal punto di vista dell’apporto proteico, e tutte le soluzioni per migliorare la situazione del benessere nostro e degli animali – e però vedo che quella cosa viene spinta con una certa energia e sinergia di canali in un momento ben preciso, allora mi viene da chiedermi a chi e a cosa debba servire.
Good Meat Inc., che è in fase di pre-valutazione da parte della FdA statunitense e ha appena ottenuto l’autorizzazione alla vendita dalle autorità di Singapore con il marchio Eat Just, propone i suoi bocconcini di pollo quindi nei supermercati e ristoranti dell’isola-Stato e anche a Giulia Innocenzi, che ha assaggiato e degustato a favor di telecamera e non è morta né c’è da pensare che muoia a breve, e meno male. Il marchio puzza un po’ di moralismo, per dirla tutta, ma poco importa. Il fatto è che l’azienda, che ha tutta l’apparenza di una start-up per quanto potente, ha raccolto da subito la bellezza di 267 milioni di dollari da una manciata di investitori, i principali dei quali sono il dipartimento statunitense dell’agricoltura, il fondo UBS O’Connor, che è il venture capitale della ben nota banca elvetica, e soprattutto Graphene Ventures, che appartiene a Nabil Alnoor Borhanu, un saudita trapiantato negli States. Nel portafoglio di Graphene troviamo varie aziende particolarmente innovative, tra le quali appena rilevata Currentfoods, che produce pesce a base vegetale, e poi un po’ di aziende nel settore bio-sanitario. La più interessante mi pare X-Therma, attiva nel campo della medicina rigenerativa, che si presenta così: “banking organs to repair the human body on demand”. Insomma una specie di banca degli organi, per riparare il corpo umano quando si vuole. Diciamo che è un fondo attivo nei mercati con forti prospettive di sviluppo e non trascura le potenziali sinergie presenti o future.