Lo spazio italiano

Versione audio dal podcast di Radio Sound 24

Più di due miliardi di euro che di fatto diamo ai francesi: l’Italia, che per finanziamenti e per produzione industriale è tra le prime cinque o sei potenze mondiali dello spazio, ha però negli anni perso la sua indipendenza, in questo settore. E fino a questo momento il governo Meloni non dà segni di voler cambiare rotta.

Ma partiamo con una brevissima sintesi del funzionamento, poi parleremo dei contratti e di come i soldi italiani vadano di fatto in Francia.

L’Unione europea ha una propria politica per lo spazio, dal Trattato di Lisbona in poi. Se ne occupa, in seno alla Commissione europea, Thierry Bréton, ovviamente francese e titolare anche dell’importantissimo dossier della digitalizzazione, oltre ad altri portafogli di rilievo.

Poi però c’è anche l’Esa, l’agenzia spaziale europea, che non è un’emanazione dell’Unione europea: è nata prima, nel ’75. È quella che si occupa della gran parte dei progetti e delle imprese spaziali europee, dai vettori all’esplorazione, dal controllo della terra alle telecomunicazioni. Per esempio i lanciatori Ariane, quello francese, o il Vega italiano sono frutto di progetti gestiti dall’Esa. Ne fanno parte paesi che sono quasi tutti membri anche dell’Unione europea, ma alcuni non lo sono. L’Italia è ovviamente membro di entrambe, e all’Esa è il quarto contributore: l’Unione europea copre metà del bilancio (oltre a spendere come detto per le proprie politiche spaziali, spesso in sovrapposizione). Poi ci sono Francia e Germania, e poi l’Italia con i suoi poco più di 800 milioni.

All’Esa chi più paga più riceve, in buona sostanza. I francesi pagano molto e ricevono moltissimo. Tra l’altro la sede dell’Esa è a Parigi, la base di lancio europea è a Kourou, nella Guyana francese, eccetera.

Tralasciamo ora quello che succede nell’industria dello spazio, sempre più privata ma con fondi pubblici: li incassa anche Elon Musk, che poi è quello che ha centinaia di satelliti in orbita e veicoli per lanciarli, e che in un mese può fare quello che l’Ariane fa in un anno. O farebbe, se ci fosse. In effetti i vettori europei al momento non godono di ottima salute. Quello francese è in ritardo e quello italiano, il Vega-C, è esploso in volo alla prima missione commerciale.

L’Italia, allora: l’Italia è uno dei grandi Paesi dello spazio e ha una propria agenzia spaziale, l’Asi, alla cui guida è stato appena nominato Teodoro Valente, che viene direttamente dal CNR, dove dirige l’Istituto per i polimeri. Il suo predecessore, Giorgio Saccoccia, era stato nominato dal governo gialloverde, quello con il Movimento Cinque Stelle e la Lega insieme, e poi prorogato quando cadeva il Conte due e il ministro con delega allo spazio, che era quello dell’Università e ricerca, era già tornato nella sua Napoli. Sicché il 24 dicembre un alto funzionario ministeriale spediva un fax all’Esa per chiedere di prestarci Saccoccia ancora per due anni. Già, perché l’ingegner Saccoccia è un dipendente dell’agenzia europea, che ce l’ha prestato. E c’era chi storceva il naso sospettando poca indipendenza. Poi è arrivato il governo Draghi con il compito di iniziare a gestire il Pnrr. Ricorderete che Conte andava fiero dei fondi ottenuti per l’Italia, decisamente superiori agli altri Paesi europei.

Del Pnrr, con qualche fondo aggiuntivo, allo spazio l’Italia ha deciso di assegnare un po’ più di due miliardi. Solo che quei soldi, da spendere rapidamente, l’agenzia spaziale italiana non sarebbe stata in grado di gestirli tutti. Sicché Draghi e Giorgetti e l’ing. Saccoccia hanno gentilmente chiesto all’Esa di gestire per noi più di metà di quei fondi, un miliardo e 300 milioni. Che non c’entrano con gli oltre 800 milioni già versati come contribuzione italiana all’Esa, quello è un altro budget.

Mai successo, che un grande Paese dotato della propria agenzia chiedesse all’ESA di gestire i suoi fondi. Fatto sta che l’ESA ha accettato, tratterrà 80 milioni per il servizio e il resto lo spenderà in Italia. Però, pare che intenda spendere quasi tutto all’Esrin di Frascati, che è sì in Italia ma è un centro di ricerche dell’Esa, con personale e contratti dell’Esa.

Veniamo ai fondi restanti: l’ASI, l’agenzia italiana, con la guida di Saccoccia è stata efficientissima e ha già assegnato quasi il 90% dei fondi. Ma se andiamo a guardare i contratti vediamo che c’è quasi sempre la stessa azienda, ThalesAlenia Space. È una joint venture franco-italiana, in cui Thales ha il 67% e Leonardo il 33%. Ha sede a Nizza, ed è capofila di tutte le cordate cui sono andati i contratti principali.

Almeno un terzo dei fondi va a cordate guidate dai francesi. Un altro motivo per cui s’è fatto in fretta è che sono tutti fatti come contratti per ricerca e sviluppo, il che consente di essere esonerati dal codice dei contratti. Però, quando si parla di realizzare una fabbrica diffusa, e cioè organizzare la catena produttiva di microsatelliti su tutto il territorio italiano, non sembra propriamente un’attività di ricerca. Insomma, qualche dubbio lo si può avere, sul quel tipo di contratto.

E se si guarda ai parametri richiesti per partecipare alla gara si nota subito una cosa: vengono di fatto escluse le startup, di cui l’Italia è particolarmente ricca, tanto da essere indicata come unicum mondiale. L’unico Paese, cioè, ad avere sul proprio territorio imprese attive in tutti i campi dell’attività spaziale, nessuno escluso.

Abbiamo detto molto rapidamente dei soldi, ma ci sarebbe molto da dire anche degli aspetti strategici: la Francia non è certo un nemico, ma consegnarle così le chiavi e il portafogli della nostra industria spaziale forse non è nel miglior interesse italiano, in un mondo che sta rapidamente cambiando anche nel senso dell’accresciuta dualità dello spazio: cioè del crescente uso militare, oltre a quello civile.

Ultima nota, già che abbiamo parlato di Pnrr: i fondi europei non sono gratis, non lo è nemmeno la quota che si dice a fondo perduto. La parte concessa in prestito andrà ovviamente restituita, mentre il fondo perduto viene da debito europeo, e l’Europa lo restituirà agli investitori, a partire dal 2026, con un fondo apposito cui parteciperanno gli Stati membri in proporzione al PIL. Sicché sì, anche quella parte la dovremo restituire, salvo sorprese.

Se il tema vi interessa particolarmente potete leggermi anche su Panorama della scorsa settimana.