Tagli alla diplomazia, IA e comunicazione diretta dei leader: quali conseguenze?

Diciamolo subito, è impossibile da prevedere in un mondo che sta cambiando così rapidamente. Tanto che si può anche ipotizzare – a giudicare dagli scossoni dati in campo internazionale dalla comunicazione di Donald Trump – che la diplomazia tradizionale sia destinata a lasciare il campo a una sorta di dis-plomazia, cioè di relazioni internazionali sempre più caratterizzate da una comunicazione volutamente dispersiva, frazionata, divisiva e imprevedibile perché ormai priva di regole e codici condivisi.

Ho detto « volutamente », ma chi può averlo voluto? Il principio del cui prodest ci porta direttamente ai rapporti di potere, in cui chi è più potente può avere maggior interesse a usare questa metodologia rispetto a chi è meno potente ed è costretto a inseguire. Ne consegue che il meno potente, che ha dovuto piegarsi a quel tipo di comunicazione e di gestione dei rapporti internazionali, tenderà a suo modo a rifarsi usando lo stesso metodo nei confronti di chi è meno potente, eccetera, fino all’ultimo anello della catena.

In Europa le strutture diplomatiche e della comunicazione istituzionale non vengono ancora smantellate, e c’è da credere che sia dovuto non solo alla constatazione di una capacità d’impatto globale ben inferiore a quella statunitense e alla necessità di mantenere rapporto diplomatici e non di forza con un ampio vicinato, ma anche all’idea che una volta conclusa l’era Trump si sia destinati a tornare alla normalità.

D’altra parte la Francia sembra aver intrapreso – non necessariamente con successo – una via diversa, con la comunicazione diretta del Presidente che per il resto tende ad avvalersi più di consulenti esterni che dell’ufficio stampa dell’Eliseo. Lo stesso Ministero degli Esteri ha visto una rotazione notevole nel ruolo apicale, con ministri il cui profilo sembrava destinarli più a ruoli di « spalla » del Presidente più che di veri responsabili della diplomazia. È una repubblica semi-presidenziale, la politica estera la fa il Presidente, ma il ruolo del Ministro degli Esteri è stato vistosamente ridotto rispetto al passato. Da ministri come Vedrine, De Villepin, Barnier, Juppé, Fabius… Siamo passati a un ministero Le Drian, relativamente duraturo nonostante tre cambi di governo, ai « ministri brevi » Colonna, Sejourné, Barrot. Gli ultimi due rappresentano anche la fase di tentata conquista dei « giovani », che va dalla nomina di ministri giovani – Barrot è del 1983, Sejourné del 1985, lo stesso Attal che era stato ministro dell’Istruzione e poi Primo Ministro è del 1989 – fino alla collaborazione con due youtuber e poi alla creazione di un canale video di comunicazione pubblica diretta del presidente. A giudicare dal calo di popolarità proprio tra le fasce giovanili – al di là del forte astensionismo – non sembra aver funzionato.

Il passo dell’alfiere, da parte di Macron: piccolo spostamento
in diagonale per andare con ostentata nonchalance (mano in tasca)
a contatto con Trump, e leggermente avanti.
Foto: servizio audiovisivo della Commissione europea

Tutto questo avveniva in Francia già prima dell’avvento di Trump (o del suo secondo mandato) sicché si può pensare a un' »invenzione » macroniana. Con quale successo, è tutto da verificare. Un altro aspetto della ‘via francese’ in questa comunicazione d’immagine è l’événementiel: Macron ha sempre tenuto molto – più dei suoi predecessori – a mostrarsi al centro del mondo, anche convocando il più spesso possibile grandi riunioni con il massimo numero possibile di dignitari stranieri. Chirac era ancorato alla tradizione gollista, lavorava più sotto traccia, curava molto i rapporti con l’Africa e – come Mitterrand prima – manteneva anche una certa autonomia per la Francia (opponendosi alla guerra in Iraq, per esempio); Sarkozy aveva un attivismo internazionale fatto più di spostamenti e impegni « sul campo », Hollande puntava più a farsi vedere come « manager di crisi », senza troppo badare all’immagine. Macron all’immagine tiene molto, ha fatto di Parigi lo sfondo tipico delle cartoline diplomatiche internazionali, seconda solo alla Casa Bianca.

E anche quando è all’estero, in casa d’altri, tiene molto a mostrare confidenza con il potente (Trump, attualmente): basti vedere quanto s’è avvicinato al presidente statunitense in occasione delle foto ufficiali il 18agosto alla Casa Bianca: prima nella tradizionale « foto di famiglia », poi avvicinando la sedia nella fase iniziale del vertice, aperta alla stampa.

Quanto tutto questo abbia influito sull’opinione pubblica francese e sulla sua credibilità internazionale non è facile da capire. È comunque il tentativo evidente di mettere al centro della scena globale Parigi e la Francia – ricavandone naturalmente anche un vantaggio personale in termini di immagine -, e nello stesso tempo mostrarsi interlocutore privilegiato di Trump e quindi degli Stati Uniti. Il che significa che quelle immagini dovrebbero dire al mondo che conviene passare dalla Francia per parlare agli Stati Uniti. Non è solo immagine, quindi: può tradursi in un potere reale. E anche i menzionati vertici – l’ultimo in ordine di tempo è quello dei volonterosi per l’Ucraina, al momento in cui scrivo – non servono ovviamente solo a fruttare immagine: fruttano dichiarazioni, a volte persino seguite da impegni e poi da fatti. E contribuiscono all’immagine. Il ruolo quindi è reale. Solo che poi le grandi decisioni non vengono comunque prese a Parigi.

Il ruolo crescente dell’IA e i tagli alla diplomazia USA

Se Parigi si fa bella Washinton, come detto, impazza: è il suo ruolo e la conseguenza è che probabilmente pensa di non aver più bisogno di tutta la rete diplomatica di cui dispone, e che si è sempre servita anche di un buon numero di ONG, fondazioni, think tank a controllo diretto o indiretto.

Questo include anche aspetti apparentemente meno rilevanti, come la cosiddetta « diplomazia culturale »: nell’aprile scorso veniva annunciato il taglio di 1300 posti di lavoro al Dipartimenti di Stato, tra i quali almeno una quarantina all’ECA, l’ente che gestisce programmi come Fulbright e J-1 Visa. L’idea alla base di quei programmi era di attrarre talenti dal mondo, ma già in questo l’aria è cambiata. In un recente scambio di battute in seno a una commissione parlamentare un deputato repubblicano interrogava la funzionaria responsabile degli scambi universitari, lamentando la scarsa reciprocità con la Cina.

Il problema è che proprio sulla Cina gli Stati Uniti lamentano un sorpasso sotto diversi aspetti, a partire dal numero di sedi diplomatiche nel mondo e dalla presenza economica in alcune aree e in particolare in Africa. Sia gli Stati Uniti che la Cina fanno largo affidamento sul Ministero degli Esteri e sulle strutture collegate, per promuovere e assistere le loro imprese. Così è anche per la Francia, mentre l’Italia riesce ad avere spesso una miglior penetrazione delle PMI perché fa maggior affidamento sul sistema delle Camere di Commercio.

Al di là del business, se si parla di USA e Cina, pesano questioni strategiche di grandissima rilevanza. E quindi anche i servizi di informazione e di analisi, che spesso gravitano intorno alla rete diplomatica. Emblematica è la seduta del 23 luglio scorso alla Commissione Esteri della Camera: interrogata dalla deputata Pramira Jayapal sul numero di diplomatici sopravvissuti ai tagli e in grado di capire il Cinese (Mandarino), la Sottosegretaria Allison Hooker, che ha la competenza diretta in materia, ne era ignara.

Questo lo scambio, che ritrovate nel video a destra:

On. Pramila Jayapal:
“Con tutti questi tagli, sa dirmi quanti diplomatici del Dipartimento parlano correntemente mandarino in questo momento?”

Allison Hooker (Under Secretary for Political Affairs):
“Non ho quel numero con me oggi.”

Jayapal:
“Quindi non lo sa. Stiamo affrontando sfide strategiche senza precedenti con la Cina, e lei non sa quanti dei nostri diplomatici parlano la lingua cinese. Questo è un problema enorme.”

Hooker:
“Posso certamente far avere quei dati alla commissione successivamente.”

Interverrà successivamente un altro deputato, Greg Stanton (32′, nel video integrale), per chiedere quanti dei licenziati avevano ricevuto formazioni linguistiche in Cinese mandarino, e a che costo. Anche a questo la sottosegretaria non era in grado di rispondere ma aggiungeva: « le posso assicurare che ci restano ancora dei funzionari in grado di capire il Mandarino ». E ancora: « quanto tempo ci vuole per quella formazione linguistica? », e anche qui nessuna risposta immediata; « in percentuale quanti dei funzionari in grado di parlare il Mandarino sono stati licenziati? » – nessuna risposta nemmeno su questo. Conclusione del deputato Stanton: « le sue risposte non mi hanno convinto del fatto che questa amministrazione abbia idea o abbia un piano per limitare il danno causato da questa riorganizzazione a una delle capacità linguistiche più utili, e ne abbiamo assolutamente bisogno (…) »

Ma se la sottosegretaria non sembrava eccessivamente preoccupata questo è dovuto anche all’uso dell’IA – nelle traduzioni ma anche nelle analisi della documentazione, nella corrispondenza e in molte altre attività in seno al Dipartimento di Stato. E questo è un processo che in realtà si avviava sotto Biden: qui l’allora Segretario di Stato Anthony Blinken parlava dei benefici e del potenziale dell’Intelligenza Artificiale applicata con un chatbot dedicato all’interno del Dipartimento di Stato: « potenziamento della capacità d’analisi », « liberazione di risorse umane » riducendo il lavoro di routine (e in questo includeva traduzione e riassunto dei cablogrammi, per esempio: ma è evidente che se viene applicata alla documentazione diplomatica l’IA viene usata anche per la traduzione delle diverse pezze d’informazione relative a qualsiasi Paese monitorato, dagli scritti accademici ai giornali ai verbali delle riunioni eccetera).

E poi parlava di benefici dell’IA anche per una « migliore allocazione » delle risorse di USAID. I drastici tagli avviati da Trump (soprattutto per USAID, ma come detto anche del personale alle dipendenze dirette del Dipartimento e poi altri tagli legati alle chiusure di sedi diplomatiche, e ancora: la quasi totalità dei programmi internazionali dell’ufficio « per la democrazia, i diritti umani e il lavoro« , e anche – abbastanza paradossalmente – i cosiddetti « cyber-diplomatici », cioè quelli che lavorano a cybersicurezza, crittografia e anche IA) sono quindi la diretta conseguenza di quanto veniva preparato da Biden.

D’altra parte, lo svuotamento della rete diplomatica non è solo quantitativo ma anche funzionale: accentramento delle competenze e sostituzione di fatto di alcune di queste, in particolare per via della menzionata comunicazione diretta di Trump, soprattutto su X – un fattore che ha amplificato e accelerato la dinamica -.

Il problema di fondo, vagamente menzionato nell’audizione parlamentare che abbiamo riportato, è che degli oltre 75.000 dipendenti del Dipartimento di Stato quasi 3/4 sono assunti nel mondo con contratti locali. Sono i più facili da licenziare. Ma sono anche quelli che oltre a mandare dispacci, analisi e traduzioni hanno o avevano la conoscenza diretta del contesto, relazioni, capacità di valutare il non verbale. Doti fondamentali – come detto in un altro articolo – e non sostituibili dall’IA.

Un altro motivo per cui rinunciare alla diplomazia tradizionale è estremamente pericoloso.

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