Chiamiamola pure « diplomazia spettacolo », se preferite: che è una dimensione relativamente nuova delle relazioni internazionali e forse è solo l’ultimo esempio di uno slittamento globale e collettivo, forse anche spontaneo, verso l’idea di esistenza in funzione dell’apparenza. Che è poi il principio alla base della comunicazione via social e questa è a sua volta conseguenza diretta del predominio dell’immagine nella nostra epoca.
Discorso troppo lungo e troppo complesso per affrontarlo qui in modo serio. Mi limito a dire, in estrema sintesi, che se all’immagine si attribuisce uno spropositato potere di certificazione della verità – tale da non richiedere più verifiche: l’immagine non è indizio ma prova – allora tutto deve esistere in immagine. E se tutto deve esistere in immagine allora devo apparire, per esistere.
Sicché la comunicazione diretta via social è diventata preponderante rispetto a quella mediata, e laddove il ruolo è tale da garantire esposizione mediatica allora sia pure media, ma TV e rigorosamente senza intermediari se non di comodo.
In Francia, Macron ci ha abituati alle « interviste » con giornalisti invitati direttamente dall’Eliseo: non sempre si limitano a fare da décor a quello che in effetti è un comizio televisivo, ma diciamo che la diretta, la scelta preliminare degli invitati, il tempo ridotto per le domande non preconfezionate e una certa cortesia istituzionale fanno sì che l’intermediazione sia molto, ma molto ridotta.
Negli scorsi giorni anche il Primo Ministro, Bayrou, ha proceduto allo stesso esercizio: intervista a reti unificate a pochi giorni dal voto di fiducia sulla manovra di bilancio. Tra l’altro nel corso dell’intervista ha menzionato l’Italia accusandola di fare dumping fiscale e puntuale è arrivata la risposta via social di Salvini prima e Meloni poi. Il messaggio della Presidente del Consiglio su X non è in video, ma è comunque comunicazione non mediata (a differenza di un tradizionale comunicato inviato alla stampa, per esempio).
Ovviamente una comunicazione più immediata e più diretta ha un maggior potenziale di escalation, per dirla con un termine di cui si abusa un po’ ultimamente. Tant’é che quasi sempre finisce in un botta e risposta che si spegne solo quando la stampa smette di riprendere la cosa dai social. O quando si decide di portarla su un altro piano, come nel caso del salviniano « si attacchi al tram » rivolto a Macron, che ha abbastanza sorprendentemente portato alla convocazione dell’ambasciatrice italiana.
Sorprendente perché se n’erano sentite di ben peggiori tra Francia e Italia, e perché in generale ci siamo ormai dovuti rassegnare a un linguaggio assai greve nei rapporti internazionali. Stupisce questa improvvisa sensibilità, tanto più che quella stessa cosa era stata detta già più volte da Salvini nel recente passato senza suscitare reazioni.
D’altra parte si può sospettare che l’episodio sia in realtà un pretesto per altro: Donald Trump aveva appena ricevuto alcuni leader europei – gli immancabili Macron, Merz e Starmer, oltre al Segretario Generale della NATO e alla Presidente della Commissione europea, cui si erano uniti questa volta i capi dei governi finlandese e italiano, latori di proposte ritenute interessanti dall’inquilino della Casa Bianca. Troppi personaggi in scena, e già nell’incontro introduttivo aperto alla stampa si intravvedeva un certo fastidio reciproco tra alcuni degli interlocutori europei. D’altra parte la Francia propone da tempo l’invio di truppe dei paesi « volonterosi » in Ucraina a mo’ di forza di pace – è uno dei suoi criteri irrinunciabili nell’eventuale trattativa con la Russia, oltre alla tregua preliminare – e l’Italia si è sempre detta contraria, non solo con le frasi di Salvini ma anche con dichiarazioni più morbide e istituzionali.
La convocazione dell’ambasciatrice, in questa ottica, andrebbe quindi interpretata non più come la tradizionale reazione a qualcosa che davvero si ritenga inaccettabile, ma come parte di uno spettacolo, come strumento ad alta carica emotiva, tale da giustificare in sé l’amplificazione critica data dalla stampa « amica » in Italia.
Sicché una frase che non valeva nulla prima serve invece ora ad accendere un’apparente polemica che non ha lo scopo né il potenziale di lunga durata ma che rappresenta un modo abbastanza spettacolare per lanciare altri messaggi e preparare altri scenari eventuali. Che non andiamo a valutare qui perché ci porterebbero fuori tema: parliamo di spettacolarizzazione del linguaggio diplomatico, non in modo specifico delle risse reali o apparenti tra Italia e Francia né del modo in cui si esprimano i rapporti di potere in ambito europeo.
Spettacolare, restando a Macron, è stato per esempio il suo modo di arringare la folla in Libano sul governo in carica – a favor di telecamere, beninteso; o in Burkina Faso, quando disse: « mi trattate come se fossi ancora una potenza coloniale, ma io non ho alcuna intenzione di occuparmi dell’elettricità nelle Università del Burkina Faso, è il lavoro del Presidente (indica il presidente ospite, Kaboré, che a quel punto si alza e se ne va) ecco, se ne va, è andato a riparare la climatizzazione ».
« Chiedetegli se si è sentito offeso », dirà poi Macron quando gli veniva chiesto se non ritenesse fuori luogo quell’atteggiamento. « Non si può essere franchi, non si può scherzare ». E qui siamo in pieno nel tema del giorno: la diplomazia ha sempre avuto toni franchi e anche qualche battuta, ma solitamente dietro le quinte. Non davanti alle telecamere, e in quel caso specifico persino davanti a una folla. Da ospite nel Paese.
È la stessa idea di diplomazia che ha portato alla famosa rissa verbale Trump-Zelensky nello studio ovale della Casa Bianca, con qualche differenza che porta molti osservatori a ritenere « costruita » quella scena. Che sarebbe da interpretare come una deliberata e pretestuosa aggressione da parte di Trump, costruita a tavolino per certificare il ruolo dominante. Io sono più pessimista, anche osservando il fatto che la cosa è iniziata un po’ prima: Trump stava rispondendo alla domanda di un giornalista, asserendo cose in toni massimalisti che generavano un visibile nervosismo di Zelensky. Il presidente ucraino ha quindi interrotto la risposta e avviato un polemico battibecco al quale Trump ha risposto andando definitivamente sopra alle righe. Ritengo quindi che non sia costruito ad arte – semmai era costruito il contesto fatto per mettere a disagio Zelensky, ma non la rissa in sé -: è per me semplicemente il frutto dell’incapacità di autocontrollo dei dirigenti.
Avrebbero potuto polemizzare dietro alle quinte; lo hanno fatto davanti alle telecamere perché « gli è scappato » così. Insomma questi dirigenti potrebbero essere semplicemente il risultato di una classe politica che ha rimpiazzato la visione del mondo con un più semplice, troppo semplice: « come faccio a sapere quello che penso se prima non ho sentito quello che dico? » E se questa è la classe politica, i dirigenti saranno tendenzialmente persone che sanno quello che pensano, sanno quello vogliono e sanno come convincere nella società del consenso e del pensiero breve. Ma forse non sanno chi sono.
Se per gli Stati Uniti la cosa può anche essere frutto di una lunga storia di tele-democrazia, che ha generato un rapporto iper-normalizzato con la telecamera, non è così per la cultura politica europea, e ancor meno per la cultura diplomatica.
Ed è proprio Macron a rappresentare in Europa – tra i capi di Stato e di Governo: già tra i ministri la lista sarebbe lunga – il più evidente prototipo dell’uomo politico dotato di quell’incontinenza verbale che ne fa elemento spettacolare (deliberato o meno che sia: questo atteggiamento gli ha spesso consentito di sorprendere quando serviva).
Oltre al Libano, Macron ha avuto anche – sempre in visita nel Paese, sempre davanti a una folla, sempre davanti alle telecamere – uno scontro con il presidente della Repubblica Democratica del Congo. E l’elenco delle sue dichiarazioni dai toni radicali sull’Africa è lungo, tanto che la stessa televisione pubblica francese ne ha fatto un documentario che non è un semplice elenco degli scontri ma va già nel titolo a ipotizzarne le conseguenze: « Africa-Francia, il divorzio? »
Già: quanto pesano atteggiamenti e dichiarazioni a favor di telecamera nei rapporti internazionali?
Se l’uso dell’immagine insegue obiettivi di breve termine e la diplomazia è per definizione votata al lungo termine, non si crea una frattura grave e definitiva tra linguaggio e politica?
Infine: perché? Semplice adattamento alle modalità comunicative correnti, senza troppo badare al lungo termine – perché si conta sul crescente effetto di assuefazione e di « memoria corta » dell’opinione pubblica? O si tratta di decisioni che tendono a privilegiare la trasparenza?
E quale credibilità ottiene questa forma di video-democrazia in Paesi maggiormente abituati al silenzio o alla polemica composta, per poi negoziare dietro le quinte?
Ce lo chiediamo da tempo, e lo abbiamo chiesto a un paio di osservatori in questo nostro secondo numero speciale: Sahar Jemni ha raccolto le opinioni di Hafedh Gharbi, docente all’Università di Sousse, in Tunisia, specializzato in politica estera statunitense, globalizzazione e relazioni internazionali; e di Rania Karchoud, specialista di comunicazione politica e professore incaricato all’Università Panthéon-Assas di Parigi.
Perché se la spettacolarizzazione dei rapporti internazionali può essere un problema, a questo si aggiunge il sempre più consistente uso della diplomazia a distanza: video-conferenze che privano la diplomazia dell’apporto fondamentale del non-verbale, o lo distorcono. Un problema aggiuntivo, in una tendenza globale alla riduzione della diplomazia. Riduzione anche strutturale, se si guarda ai numeri dei tagli al corpo diplomatico e alle agenzie connesse decisi dalla Casa Bianca.
Infine: quanto sia destinata a pesare la comunicazione diretta dei leader – e più ancora l’uso e abuso dell’IA – si intravvede già dai tagli decisi dalla Casa Bianca alla rete diplomatica statunitense. Con conseguenze forse imprevedibili.
Buona lettura!