Viva i disoccupati

Versione audio dal podcast di Radio Sound 24

Il governo giapponese pubblica l’ultimo dato sulla disoccupazione, in calo, e le borse asiatiche reagiscono con un’ondata di vendite. Negli Stati Uniti il governo democratico e l’opposizione repubblicana raggiungono un accordo che evita il temuto default, e l’entusiasmo in borsa non si vede. Però quando erano in corso i negoziati e si temeva che fossero senza esito le borse calavano, eccome se calavano.

Sembra tutto così strano nel mondo, quando si parla di investimenti. In effetti il corso delle azioni sembra a volte seguire certe logiche mediatiche, quantomeno per gli effetti di amplificazione della realtà, cioè della parte negativa di ciò che accade.

Nelle scorse settimane abbiamo parlato del tempo, dei dividendi e di molto altro. Oggi ci eravamo dati l’impegno di valutare le variabili politiche.

Non lo è più di tanto il dato macro-economico, benché dipenda spesso da scelte di politica economica: per esempio, il citato dato della disoccupazione giapponese. Per la prima volta da tre mesi la disoccupazione è in calo, e sarebbe un’ottima notizia per tutti. Se non altro perché rappresenta un minor carico per la spesa pubblica, e presumibilmente maggiori entrate fiscali. E poi, se le aziende assumono vuol dire che lavorano, sicché l’economia gira.

Invece le borse asiatiche non l’hanno presa tanto bene. Il beneficio economico di una minor disoccupazione va allo Stato giapponese, non agli altri. Sicché, almeno per il breve termine, questa argomentazione per le altre piazze finanziarie salta. E allora si pone la questione del prezzo: lavorano, sì, ma quanto vogliono per il loro lavoro questi giapponesi?

Perché si parla di una disoccupazione comunque bassa, in aprile al 2,6%, e i dati mostrano “una disponibilità sostenuta di posti di lavoro per richiedente”. Il che significa che ogni lavoratore ha mediamente la scelta per più posti di lavoro, e quindi ha un certo potere di fare il prezzo. Insomma, quando c’è poca disoccupazione il costo del lavoro tende a salire perché le aziende, almeno per i migliori lavoratori, sono in concorrenza.

In generale, per un buon equilibrio macro-economico, si punta a un determinato livello di disoccupazione, mai al suo azzeramento.

Anche in Europa i dati della disoccupazione sono buoni, anche se siamo ancora al 6,7% nella zona Euro. Già si parla però di “piena occupazione” che verrebbe raggiunta a breve. L’Italia ha qualche problema in più, con un tasso ancora all’8,3% e soprattutto un forte divario settoriale. In alcuni campi – direi soprattutto nei campi, oltre al settore turistico-alberghiero – manca manodopera, in altri ce n’è in eccesso. Sicché, non potendo far esplodere i costi perché il prodotto deve competere a livello globale, si fa ricorso alla manodopera immigrata, creando una domanda di lavoro per qualche verso artificiale. E qui sono anche scelte politiche.

Cosa c’entra con le azioni, l’abbiamo detto: gli indici vedono di buon occhio una disoccupazione equilibrata, tale da far pensare che le aziende possano crescere e che convenga quindi investire.

Quanto alla questione del debito statunitense, è un’altra cosa che un marziano faticherebbe a capire: è un teatrino che si ripete periodicamente, non si è mai arrivati al disastro totale, al massimo a un blocco della spesa pubblica per qualche giorno. Le borse calano a discussioni in corso e poi se ne hanno voglia rimbalzano quando viene raggiunto l’accordo o comunque sbloccata la situazione. Perché gli investitori continuino a vendere le loro azioni alla prima tensione se sanno che poi tanto risalgono non si capisce, verrebbe da dire: e invece si, e sta nel fattore tempo. Vista dalla Borsa, la politica è un grande teatro nel quale nessuno ti dice prima quanto dura lo spettacolo, e nemmeno di quanti atti è composto. Sicché magari a un certo punto pensi che sia finita e invece no, è solo un intervallo.

La guerra in Ucraina ormai è almeno parzialmente assorbita, gli investitori si sono resi conto della durata e dei limiti, ma restano prudenti perché di variabili ce ne sono tante. A togliere un po’ di fibrillazione in Occidente è l’isolamento quasi completo dalla finanza russa, sicché di scossoni diretti se ne vedono ormai pochi. Però il Brasile adesso insiste per una moneta unica dei Brics, Lula è appena andato in Venezuela e il Venezuela è un gran produttore di petrolio, e anche il Brasile non ci scherza, e l’Opec è da un po’ che tende a non accontentare gli Stati Uniti, sicché tocca sperare che non ci sia troppa ripresa economica perché sennò aumenta il consumo di petrolio e rischia di essercene poco, a prezzi quindi molto alti. E in questo momento, tra inflazione alta e tensioni persistenti, questo danzare sulla linea sottile della recessione sembra la soluzione migliore. Ma tutto questo non dà visibilità, non dà certezze su nulla, come accade d’altra parte nella società, dove sono un po’ saltati tutti i punti di riferimento storici: posto fisso, patria chiesa famiglia, eccetera.

Risultato: tocca vivere e investire a breve termine, perché non sai cosa possa succedere domani. E il tutto a causa di scelte politiche, di fatto. Anche un fatto naturale come un’inondazione in Borsa può essere visto come un fenomeno che ha un segno più o un segno meno, dipende dalle scelte che farà poi il governo per rimettere tutto a posto. Per esempio, se ricostruendo dopo un’alluvione o un terremoto si puntasse direttamente all’eolico e al solare, le azioni delle aziende energetiche green probabilmente prenderebbero valore. Oltre al settore delle costruzioni, beninteso. In quei casi calano le assicurazioni, naturalmente. Ma anche lì la scelta politica può favorire la successiva ripresa.

Per cui sì, alla fine i vostri investimenti dipendono in larga parte da scelte politiche. Sempre meno determinabili e sempre meno predeterminate, però. E’ il principale elemento di rischio, ma è spesso anche il principale rimedio a certi eccessi finanziari. Perché la finanza non è buona o cattiva in sé: dipende da chi la fa e come. E lo stesso vale per la politica, naturalmente.