Non si può dire che il Ministro dell’Interno francese, Gerald Darmanin, goda di molte simpatie: interventista un po’ su tutti i dossier, pronto a inviare circolari per dettare la linea ad ogni prefetto di Francia, ma molto meno pronto a prendersi le responsabilità dei fallimenti, litiga con mezzo mondo e fa orecchie da mercante quando gli si chiede spiegazione.
Accusato di stupro da due donne: casi per i quali in primo grado e anche in appello è stato deliberato il non luogo a procedere, ma che restano imbarazzanti sia perché sono ancora oggetto di ricorsi sia perché resta il fondo dello scambio di favori, perché i favori sessuali sarebbero stati concessi in cambio di favori amministrativi, secondo le due donne. Il rapporto sessuale è acclarato, il do ut des variamente negato dal ministro, che all’epoca dei fatti aveva soltanto un ruolo nel partito, benché di rilievo.
Quello che ha fatto drizzare i capelli a qualche militante per la difesa delle donne è stata un’argomentazione difensiva: la sottolineatura del profilo sessualmente disinibito della donna che lo accusava. Un classico. Anche un bell’autogol, verrebbe da dire. Tanto che l’avvocata dell’accusatrice principale dice di esser pronta ad andare avanti, fino alla Corte europea che, dice, “non mancherà di rifilare alla Francia il ceffone che merita da tempo, su questo caso in particolare e sul tema delle violenze sessuali”. Ecco fatto, discorso allargato e ormai tema politico di peso.
Sicché, quando s’è ritrovato di nuovo al centro delle polemiche qualche giorno fa per le cattiverie dette a una donna per colpirne un’altra, cioè l’attacco a Giorgia Meloni per colpire Marine Le Pen, c’è pure chi ha ritenuto di sottolineare che forse il ministro ha qualche problema con le donne. E il riferimento dell’avvocata in realtà era anche a un’altra vicenda che aveva colpito il governo di Macron, sempre per diverse accuse di violenza sessuale: Damien Abad, nominato ministro della Solidarietà all’inizio di questo governo guidato da Elisabeth Borne e silurato pochi mesi dopo, in occasione del primo rimpasto utile.
Darmanin no, lui non si può. Con Abad ha una cosa in comune, è un transfuga della destra repubblicana. Ma se Abad ha lasciato il centrodestra all’opposizione, di cui era capogruppo nel 2022, per abbracciare Macron e diventare ministro, Darmanin lo ha fatto molto prima, già nel 2017: è uno dei primi grandi sostenitori del colpo gobbo di Macron, quando l’attuale presidente fu eletto per la prima volta, senza avere un partito. Sicché dovette procurarsi una maggioranza, sostanzialmente pescando in Parlamento tra gli eletti in altri partiti, Les Republicains in primis. Da lì venne l’allora primo ministro Edouard Philippe, che portò con sé Darmanin, che aveva, lui, lasciato il partito pochi mesi prima per non sostenere Fillon, candidato alla presidenza. Ma non sosteneva nemmeno Macron: lo definiva, all’epoca, “populista chic”, “demagogo” e “veleno finale”. Ma pochi mesi dopo era ministro nel suo governo, e gli è accanto anche nel corso di questa seconda legislatura.
Inamovibile per Macron, decisamente meno per la moglie, ormai ex, conosciuta quando lei era assistente parlamentare di David Douillet, nel 2010. Di lui dice, in merito al comportamento con le donne, che “chi lo conosce, sa” e parla di “comportamento inaccettabile” per una ormai celeberrima intervista del 2022, quando si sentì attaccato dalle domande di una giornalista televisiva, Apolline de Malherbe, e pensò bene di dirle: “si calmi, andrà tutto bene”.
Tralasciamo il flop della finale parigina di Champions League dello scorso anno, quando si verificarono pesanti incidenti e i tifosi del Liverpool furono inizialmente accusati dal ministro di essere all’origine degli incidenti perché in possesso di biglietti falsi, cosa poi alquanto ridimensionata da una commissione parlamentare d’inchiesta che ha rilevato la cattiva organizzazione dei flussi, che avrebbe anche favorito gli assalti della delinquenza locale. Fatti che peraltro non depongono a favore delle Olimpiadi che si terranno l’anno prossimo a Parigi, a quanto pare in presenza dello stesso Darmanin. Che nel frattempo, dopo aver distribuito gride rigorosissime in materia di contenimento delle manifestazione contro la riforma delle pensioni, ha pensato bene di rispondere alle accuse della Lega per i Diritti dell’Uomo sulle violenze poliziesche nello sgombero di un bacino idrico in fase di realizzazione: avrebbe potuto dire tante cose, ma una no – mettere in questione i contributi pubblici a questa ong, che opera da fine ‘800 -.
Lo ha detto, e l’ha pure detto di fronte a una commissione parlamentare. Risultato: enorme afflusso di donazioni e di iscrizioni, da sinistra e da destra. Un incremento di popolarità per la ONG.

Più o meno la stessa reazione che s’è vista ora nello scontro verbale con l’Italia: Giorgia Meloni e il governo italiano, di estrema destra e incapace di gestire l’emergenza migranti. Lo diceva per dire che Marine Le Pen se fosse al governo in Francia sarebbe altrettanto incapace, ma intanto ha attaccato un governo teoricamente amico. Cioè, che dovrebbe esserlo. Insomma, con il quale forse varrebbe la pena di iniziare a cercare un po’ di dialogo costruttivo. Italia e Francia in fondo hanno firmato il Trattato del Quirinale, anche se non l’hanno mai rispettato.
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Ma dicevo delle reazioni: in massa contro Darmanin, a leggere i commenti dei lettori di giornali (i due della foto sono ripresi da Le Figaro – erano centinaia). Molti a sottolineare che prima di parlare degli altri bisognerebbe guardare in casa propria: a Mayotte, in particolare, dove pure c’è un’emergenza immigrazione che il buon Darmanin fa fatica a sistemare. Ha deciso il pugno duro, l’ha chiamata “operazione Wuambushu”, cioè “ripresa”, sottinteso dei migranti espulsi. Perché nelle intenzioni di Darmanin e del suo prefetto locale le vicine Comore avrebbero dovuto riprendersi i loro clandestini, per i quali erano state apprestate alcune navi. Mayotte è un’isola francese tra il Madagascar e il Mozambico, la prima delle Comore è ad appena settanta km da lì. Solo che il ministro dell’interno delle Comore a fine aprile ha chiuso i porti alle navi francesi: “Finché la controparte francese decide di fare le cose in modo unilaterale, nessun espulso entrerà in un porto sotto sovranità delle Comore”, ha detto. Sicché Mayotte resta un po’ la Lampedusa francese (naufragi compresi), anche se molto più lontana dal continente europeo. E poi qualcuno rispolvera la questione Ocean Viking: se il governo francese aveva definito inaccettabile il comportamento italiano per quella nave, tra i commentatori c’è che sottolinea che l’Italia l’ha “restituita” alla Francia che non è poi stata in grado di impedire la “fuga” dei migranti una volta sbarcati.